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martedì 21 febbraio 2012

Rai marcia indietro su PC Tablet e Smartphone



ROMA - La Rai ha rinunciato al canone su pc, tablet e smartphone. E' il risultato di un confronto con il ministero dello Sviluppo Economico. La svolta c'è stata perché il ministero ha dato un'interpretazione della norma del 1938 relativa al canone che esclude quei prodotti dal pagamento. La decisione arriva dopo le polemiche di giorni scorsi 1.


La Rai ha accolto quest'interpretazione, dopo un breve contraddittorio. DI fondo, il ministero ha fatto notare a Rai che sarebbe stato assurdo imporre un pagamento che avrebbe certo penalizzato lo sviluppo del digitale in Italia, proprio in una fase in cui il Paese sta cercando di potenziarlo.


Lo stesso parere è arrivato da Confindustria Digitale. "Un'assurda forzatura giuridica, ma soprattutto un'iniziativa fuori dal tempo e in totale contrasto con gli obiettivi dell'agenda digitale e gli sforzi che si stanno mettendo in atto per rilanciare la crescita del Paese", ha detto il presidente Stefano Parisi, sul "balzello che la Rai vorrebbe imporre a imprese e professionisti per il possesso di pc, tablet e smartphone".


"Innanzitutto va chiarito - continua Parisi - che i pc non sono stati concepiti per la ricezione di trasmissioni radiotelevisive, ma per innovare l'organizzazione del lavoro e la comunicazione. Il fatto che possano ricevere segnali televisivi lo si deve al processo evolutivo del mondo digitale, di cui lo stesso settore radio tv ha fortemente beneficiato per il suo sviluppo. Quindi l'estensione del canone Rai agli apparati dell'Ict, la pretesa di associarlo alla titolarità di un abbonamento a banda larga, il richiamarsi a una legge del '38 per tassare tecnologie del duemila, sono frutto di un'interpretazione del tutto arbitraria non supportata da alcun riferimento legislativo". Il ministero è d'accordo e Rai deve seguire. 

giovedì 3 novembre 2011

IL CONFRONTO PASSA SUL WEB

IL CONFRONTO PASSA SUL WEB

di Paolo Manasse 25.10.2011

Negli Stati Uniti i blog di singoli economisti, molto spesso accademici, incidono sulla visibilità dei risultati scientifici, sulla reputazione degli autori e della loro università e sulle opinioni dei lettori. In Italia, invece, per l'informazione economica abbiamo quasi esclusivamente blog collettivi. Perché? Quattro le ipotesi: una minor cultura economica del paese; un maggior grado di concentrazione proprietaria dei media, che lascia meno spazio alle iniziative individuali; una minor propensione al rischio dei nostri intellettuali.

Perché molti economisti accademici, soprattutto negli Stati Uniti, dedicano tempo e fatica a gestire un blog? Si pensi ad esempio, a Steve Levitt di Freakonomics, Paul Krugman, Brad De Long, Greg Mankiw, Dani Rodrik, Becker e Posner, Mark Thoma, John Taylor. Forse i professori, a una certa età, sono stufi dei lunghissimi tempi necessari a pubblicare sulle riviste scientifiche? O ambiscono semplicemente a ottenere maggior visibilità, per sé e per i propri lavori scientifici? Lo fanno per spirito civico, per sostenere le proprie idee, per generare un dibattito e avere i feedback dei lettori? E perché da noi questo, con rare eccezioni, non accade?


TRE EFFETTI


Un recente lavoro della Banca Mondiale risponde ad alcuni dei precedenti interrogativi. Gli autori, David McKenzie e Berk Ozler, sottopongono a verifica empiricaalcune interessanti ipotesi: ad esempio che a) i link di otto tra i più importanti blog americani alle pubblicazioni scientifiche/working papers citati ne accrescano in modo significativo la diffusione (la frequenza di download e visione di abstract); b) che i blog di economia accrescano la visibilità/reputazione degli autori rispetto a colleghi di pari livello scientifico; c) che i blog influenzino l'interesse e le opinioni dei lettori riguardo ai temi trattati.


 


I risultati sono interessanti. Il link da un blog accresce in maniera significativa le abstract views e i downloads della pubblicazione nel mese della citazione e in quello successivo. Com’è illustrato dalla figura 1, alcuni blog hanno un effetto “moltiplicativo” veramente rilevante: ad esempio, una citazione di Paul Krugman, Marginal Revolution o Freakonomics comporta un aumento delle visioni di abstract compreso tra 300 e 470 unità (rispetto a una media mensile di 10,3 visioni dei papers del National Bureau of Economic Research) e un impatto sui download di 33-100 unità (rispetto alla media mensile di 4,2 di un paper Nber).

L'effetto reputazione è particolarmente interessante: gli autori impiegano i risultati di un’indagine survey sugli economisti che godono di maggiore rispetto e ne incrociano i risultati con il ranking (RePec) dei principali 500 economisti al mondo, basato sulle pubblicazioni scientifiche. L'indagine si chiede se la probabilità di apparire nella lista degli economisti più ammirati, oltre che dal ranking scientifico, sia anche influenzata dal fatto di essere o no un blogger. Lo è: l'attività di blogger accresce di circa il 40 per cento la probabilità di apparire nella lista degli economisti maggiormente ammirati, un effetto equivalente a quello di essere tra i cinquanta migliori economisti del modo sulla base del record di pubblicazioni.

Infine, per valutare l'impatto dei blog, gli autori hanno condotto un esperimento casuale su 619 tra studenti di Master e PhD in sviluppo economico, tra giovani economisti della Banca Mondiale e tra alcuni giovani appartenenti a Ong, una parte dei quali è stata invitata a seguire un nuovo blog della Banca Mondiale. I risultati mostrano che quanti sono esposti al blog danno un miglior giudizio sulla qualità della ricerca alla Banca Mondiale, e, in parte sulla desiderabilità di lavorarci.


E L’ITALIA?


 Ma allora perché in Italia questo non accade? Se scorriamo la classifica di Blogbabel dei 500 blog più frequentati abbiamo, per l’informazione economica, quasi esclusivamente blog collettivi : sia in ambito “accademico” (come lavoce.info, noisefromamerika), sia in ambito “giornalistico”  (chicagoblog, phastidio). Certamente quest’assenza non può essere dovuta agli incentivi interni alla carriera accademica: se bloggare ha un elevato costo opportunità perché sottrae tempo prezioso al lavoro scientifico, questa spiegazione varrebbe solo se il merito accademico fosse molto più importante in Italia  che negli Stati Uniti (cosa piuttosto improbabile). Un'altra plausibile  spiegazione è che alcuni economisti possono ottenere esattamente gli stessi risultati di un blog “individuale” scrivendo sui quotidiani a larga diffusione, con l’indubbio vantaggio di accedere ad un ampia platea senza doversela “conquistare sul campo”, come un blogger qualsiasi. Ma questa spiegazione è convincente solo in parte, perché in tutti i paesi del mondo gli economisti scrivono anche sui grandi quotidiani, mentre da noi quasi solo su questi e su siti collettivi. Rimane dunque una spiegazione basata sugli incentivi esterni: se i benefici individuali in termini di reputazione personale, diffusione dei risultati scientifici, possibilità di influenzare l’opinione pubblica  con un blog sono percepiti da noi come una frazione di quelli americani, sarà razionale dividerne gli oneri associandosi in un sito collettivo, come infatti avviene. Ma allora cosa spiega tale percezione?  Avanzo qui quattro ipotesi: dal lato della domanda d’informazione, 1) una minor cultura economica, una minor diffusione di internet e la barriera della lingua italiana implicano una minor dimensione del mercato italiano e dunque  limitano l’impatto dei blog economici (ma il successo de lavoce.info sembrerebbe contraddire questa ipotesi); dal lato dell’offerta di informazione, 2) l’elevato grado di concentrazione proprietaria dei media lascia minor spazio a iniziative individuali; 3) l’estrazione cattolica/post-socialista di molti economisti favorisce le iniziative “collettive”; 4) le attività di networking producono in Italia  maggiori vantaggi di quelle che passano per l’iniziativa individuale.

lunedì 31 ottobre 2011

Nuovo gruppo fb «Non canto sotto la doccia e non fischio per strada per paura della Siae»

Diritti d' autore per la musica nei trailer, veramente troppo, Il web si ribella.


Ci stanno scherzando sopra, ma il sentimento diffuso tra i siti Internet è quello di rabbia e protesta per l' invito a pagare i diritti d' autore sulle musiche dei trailer dei film. Invito arrivato dalla Siae, la Società Italiana degli Autori ed Editori, che il 28 novembre ha specificato la sua posizione di semplice «strumento» per fare applicare una norma che esiste da anni, quella che tutela il diritto d' autore. «Una clausola da sempre contenuta nella legge italiana e nei trattati internazionali, per cui se una musica viene utilizzata l'autore di quella musica ha diritto ad un compenso». La Società nei giorni scorsi ha rivolto l' invito a numerosi siti di trailer a carattere commerciale «a regolarizzare la propria posizione» perché diffondere al pubblico colonne sonore «senza aver assolto i diritti rappresenta una violazione della legge». Un invito - ribadisce la Siae - per diffondere la cultura del rispetto dei diritti degli autori anche su Internet. «La musica è chiaramente tra le materie prime dei contenuti audiovisivi come i trailer. Dov' è la sorpresa - si chiede la Siae - se un' impresa deve pagare quando si procura le materie prime per fare business?». Newsletter e blog però esprimono tutta la loro protesta e su Facebook è nato un gruppo, che a ieri contava 5.400 iscritti, e che si chiama «Non canto sotto la doccia e non fischio per strada per paura della Siae». 

giovedì 4 agosto 2011

e la rete?

A CIASCUNO LA SUA RETE

di Alfonso Fuggetta 04.08.2011
Il dibattito sullo sviluppo delle reti di telecomunicazione è complicato da una scarsa conoscenza del settore. Così spesso non si comprende il ruolo che le diverse tecnologie disponibili possono giocare in un moderno sistema di telecomunicazioni. Il rischio è quello di bloccare investimenti vitali per il paese. Oppure di indirizzarli su scelte strategiche sbagliate o comunque non in grado di rispondere adeguatamente alle esigenze dei cittadini, delle imprese e della società nel suo complesso.
Il dibattito sullo sviluppo delle reti di telecomunicazione è spesso complicato da una carenza di conoscenza del settore e da una debolezza nell’analisi dei problemi e delle questioni sul tappeto. In particolare, può essere utile precisare il ruolo che le diverse tecnologie disponibili possono giocare nello sviluppo di un moderno sistema di telecomunicazioni.

STRUTTURA DI UNA RETE E TECNOLOGIE DISPONIBILI

Semplificando, una rete di telecomunicazione è composta da due parti: le dorsali e le reti di accesso. Le dorsalisono reti che trasportano informazioni lungo i principali assi del territorio, arrivando fino alle centrali di zona. Sono normalmente realizzate in fibra, anche se in alcuni casi si utilizzano ponti radio. Le reti di accessoconnettono il singolo utente alle centrali di zona. Possono essere reti wireline o wireless (con filo o senza filo).
Le reti di accesso wireline sono quelle tradizionali in rame (il doppino telefonico) o quelle in fibra ottica.
Le reti di accesso wireless sono classificabili in due categorie:
1.     Reti di accesso wireless mobili: consentono all'utente di restare connesso alla rete anche quando è in movimento, attraverso il meccanismo dell'handover (il passaggio automatico da un antenna a un'altra quando l’utente si sposta). Esempi di reti wireless mobili sono quella 2G-3G (Gsm/Gprs/Edge, Umts, Hsdpa, Hsupa) e la futura rete 4G basata sulla tecnologia Lte.
2.     Reti di accesso wireless fisse: forniscono accesso a un utente sostanzialmente stanziale. Sono per esempio le reti WiMax, Hyperlan e WiFi.

COME SEMPRE, CONTA L’USO CHE SI FA DELLA RETE …
La scelta circa quale rete utilizzare dipende essenzialmente da due dimensioni, ovvero il tipo di cliente che si vuole servire e il tipo di prestazioni da garantirgli.
Gli utenti possono essere o stanziali o “in mobilità”. (1)
Un utente stanziale può accedere alla rete con tutte le tecnologie qui viste, ma l'utente in mobilità, che ad esempio usa i BlackBerry o gli iPhone, ha necessariamente bisogno di una rete 3G o 4G. Quindi, se si vuole servire questo tipo di utenza, occorre una rete wireless mobile, e a poco serve sapere che in quella zona, per esempio, è disponibile la fibra ottica o WiMax.
Una rete di accesso in fibra ha una capacità di trasferimento dati complessiva molto più elevata e scalabile di una rete wireless. Anzi, si può affermare con certezza che una rete wireless non potrà mai offrire prestazioni comparabili con quelle delle reti di accesso in fibra, sia come velocità di picco che come capacità complessiva di trasferimento dati. Una rete in fibra non pone limiti di utilizzo, specialmente (ma non solo) per gli utenti business: già soltanto l'utilizzo di poche sessioni di videoconferenza, accesso a servizi web con trasferimento dati o condivisione di informazioni multimediali, potrebbe saturare o mettere in difficoltà altri tipi di rete. Infine, lo sviluppo della ricerca sull'uso della fibra non pone al momento limiti alla crescita delle prestazioni.
Una rete wireless, sia fissa che mobile, ha limitazioni che derivano dalla fisica della trasmissione nell'etere, mezzo unico e condiviso da tutti i potenziali utenti. Quando si dice, per esempio, che una antenna wi-fi ha una capacità di 54Mbs, si intende che quella capacità viene suddivisa tra tutti gli utenti connessi a quella antenna. In funzione delle frequenze, inoltre, la comunicazione può avere problemi sia di passaggio in luoghi chiusi, sia di interferenze dovute a fenomeni meteorologici. Infine, esistono limiti fisici alla crescita delle prestazioni della comunicazione in etere.
QUALI STRATEGIE PER LE RETI?
Le reti di accesso in fibra offrono prestazioni molto elevate e scalabili, ma sono estremamente onerose dal punto di vista degli investimenti in conto capitale (anche se permettono di abbassare i costi di gestione rispetto alle reti in rame). Il costo totale per l’intero paese sarebbe dell'ordine delle decine di miliardi di euro. Le reti wireless sono più economiche da realizzare in quanto l'infrastruttura di rete termina con l'antenna e non richiede opere civili per raggiungere fisicamente il singolo utente finale. Ma, purtroppo, la capacità complessiva di una rete wireless è minore.
Un paese moderno ha dunque bisogno di una rete di accesso in fibra ottica che fornisca prestazioni di livello e "future-proof" all'utenza stanziale, sia business che privata evoluta. Allo stesso tempo, è necessario sviluppare lereti wireless mobili che permettano a ogni utente in mobilità di fruire ovunque si venga a trovare di servizi di accesso a internet. Le reti wireless fisse e mobili possono e devono certamente essere utilizzate per utenti stanziali localizzati in quelle aree del territorio dove l'investimento in fibra non è economicamente conveniente (per esempio, località montane a bassa densità abitativa) o per utenti che hanno limitate esigenze di connessione. Le reti wireless fisse e mobili possono e devono certamente essere utilizzate per fornire servizi all'utente nomadico.
Non è ovviamente semplice sintetizzare in poche righe una materia così complessa. Ma è essenziale che lo sviluppo del dibattito sulle nuove reti di telecomunicazione si basi su una valutazione attenta di tutti i fattori qui discussi. Altrimenti, il rischio è bloccare investimenti vitali per il paese o di indirizzarli su scelte strategiche sbagliate o non in grado di rispondere adeguatamente alle esigenze dei cittadini, delle imprese e della società nel suo complesso.
(1) Un caso intermedio è l'utente nomadico, che si sposta, ma opera solo da postazioni considerabili fisse, sfruttando "al volo" la connettività wireless presente (è il caso dei wi-fi bar o degli hotspot messi a disposizione da negozi e istituzioni pubbliche).

martedì 5 luglio 2011

La notte della Rete


La notte della Rete contro il bavaglio imposto dall’Agcom: appuntamento il 5 luglio
A Roma l'iniziativa promossa per protestare contro la delibera dell'Autorità garante per le Comunicazioni che, in presenza di violazioni del copyright, prevede l'oscuramento dei siti italiani e stranieri. L'evento sarà trasmesso in streaming da ilfattoquotidiano.it
Il popolo della Rete italiano non ci sta più ad accettare supinamente decisioni che passano sopra la sua testa. Il 5 luglio, a Roma, alla Domus Talenti, andrà in scena la “Notte della Rete”, una no-stop che coinvolgerà giornalisti, esperti, netizen, associazioni, esponenti politici contro quello che è stato definito “il bavaglio alla Rete”.

L’iniziativa vede come media-patnerilfattoquotidiano.it che manderà l’evento in streaming dalle 17:30 – il segnale sarà rimandato anche da un network di televisioni locali. Tra i presenti, Peter Gomez, Oliviero Beha, Pippo Civati,Antonio Di PietroDario Fo, Alessandro Gilioli, Beppe Giulietti, Guilia Innocenzi, Gianfranco Mascia, Roberto Natale, Piotta, Franca Rame, Guido Scorza, Mario Staderini, Benedetto della Vedova. A questi molti altri artisti ed esponenti del mondo del giornalismo, della politica e del mondo di Internet, si stanno aggiungendo nelle ultime ore.

La mobilitazione è cominciata negli scorsi mesi quando Agorà Digitale e altre associazioni hanno denunciato, con l’iniziativa “sito non raggiungibile” i rischi di una delibera Agcom per la libertà della Rete. Con la delibera, l’autorità, in presenza di violazioni al copyright, si arroga il diritto dirimuovere contenuti da siti italiani, o inibire l’accesso ai siti stranieri, in modo arbitrario e senza passare da un giudice. Il provvedimento, pensato per “contrastare la pirateria”, rischia di portare alla “censura” di contenuti (per esempio video) che, pur violando il diritto d’autore, risultano ugualmente di pubblico interesse.

Un nuovo potere che si auto-assegna l’Agcom che ha chiaramente una valenza politica. Alla luce del fatto che il Parlamento non si è mai preannunciato sull’argomento e che l’Autorità per le comunicazioni è solo un organo amministrativo. Dopo che la protesta è cresciuta on e off line – l’associazione Valigia Blu ha organizzato per lunedì un presidio davanti alla sede dell’autorità – anche vari esponenti politici hanno espresso le loro perplessità: per Paolo Gentiloni del Pd, “l’allarme sulle conclusioni del lavoro di Agcom sul diritto d’autore è giustificato” e i suoi colleghiVincenzo Vita e Vidmer Mercatali hanno chiesto un’audizione urgente in Senato del presidente dell’Authority Corrado Calabrò. Per Antonio Di Pietro “La tutela del diritto d’autore non autorizza alcuna censura”. Una posizione condivisa anche dal presidente della Camera Gianfranco Fini: “La protezione del diritto d’autore è fondamentale per una società sempre più basata sulla conoscenza e sulla proprietà intellettuale, ma altrettanto lo è la tutela della piena libertà della Rete”.

Il gruppo di Hacker Anonymus, che si batte per libertà d’informazione, ha rivendicato negli scorsi giorno un attacco informatico al sito Agcom. Ma anche il portale “sito non raggiungibile” ha subito un attacco che ha causato numerosi problemi e, a detta dell’avvocato Fulvio Sarzana, si è rivelato un tentativo di raccogliere i dati di coloro che avevano sottoscritto una petizione contro la delibera (la petizione non era l’unica: una seconda raccolta di firme di Avaaz.org ha raccolto oltre 100mila adesioni).

Dopo le proteste e il montare della mobilitazione contro il bavaglio, l’Autorità ha fatto un piccolo passo indietro, facendo sapere che il sei luglio, giorno in cui è prevista la discussione della delibera, “non ci sarà nessuna approvazione definitiva” e che il provvedimento “sarà sottoposto ad una discussione pubblica”.

“Agcom risponde a tutto fuorchè agli interessi dei cittadini, ed è abituata a prendere le sue decisioni nell’ombra e sicuramente non si aspettava una mobilitazione così veloce sul web”, attacca Giulia Innocenzi, tra le promotrici della Notte della Rete e coordinatrice italiana diAvaaz.org. “Fonti interne – spiega – ci hanno detto che il sei luglio si pensava di votare la delibera: il fatto che ora si parli di “iniziare una discussione” è sicuramente una prima vittoria del movimento, ma dobbiamo comunque tenere alta la guardia perché potrebbero solo prendere tempo e votarla questa estate mentre gli italiani sono a mare. Noi chiediamo che la delibera va accantonata e basta”.

Secondo gli attivisti non è un caso che questo ultimo tentativo di mettere il bavaglio alla Rete arrivi dopo le amministrative e il referendum dove Internet ha dimostrato tutta la sua capacità di coinvolgere le persone su questioni che li riguardano direttamente e informare i cittadini ormai stufi del “minzo-giornalismo”. “Il potere ha paura di Internet – conclude Innocenzi – e in tutto il mondo stanno cercando di metterle un bavaglio come quello passato in Spagna o la proposta in discussione in Francia che è già stata apripista a riguardo. Sta ai cittadini difendere questo strumento cruciale per il futuro della democrazia. E, su questo, in Italia stiamo dimostrando tutta la nostra forza e la nostra caparbietà. Di sicuro, non ci fermeremo né ci fermeranno”.

giovedì 16 giugno 2011

CHI HA PAURA DELLE PROVE INVALSI?

di Pietro Cipollone 14.06.2011
Quest'anno, più che in passato, le prove Invalsi sono state accompagnate da proteste e polemiche. Sembra perciò utile ripercorrere tutta la vicenda. Dalle ragioni che nel 2008 hanno spinto il ministero dell'Istruzione ad avviare un sistema di rilevazione degli apprendimenti degli studenti, alla soluzione proposta dall'Invalsi, fino a discutere la questione delle prove e degli esami di terza media. Tutto il processo ha lo scopo di fornire informazioni comparabili per aiutare le scuole a compiere scelte didattiche consapevoli.
Dal film "La classe", di Laurent Cantet (2008)

Nei giorni scorsi si sono svolte le prove Invalsi. Quest’anno, più che in passato, sono state accompagnate da proteste e polemiche per i presunti danni che arrecherebbero alla scuola italiana.
IL PROBLEMA
Forse è utile fornire qualche informazione che rimetta nella giusta prospettiva le ragioni che ormai tre anni fa spinsero il ministro dell’Istruzione a chiedere all’Invalsi, Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione, un piano per dotare il nostro paese di un sistema dirilevazione degli apprendimenti degli studenti. La richiesta venne dall’allora ministro Giuseppe Fioroni e fu poi confermata dall’attuale ministro Mariastella Gelmini.
L’Invalsi predispose un piano che prevedeva l’entrata a regime del sistema in tre anni a partire dalla scuola primaria (a.s. 2008-09) per proseguire con quella secondaria di primo grado (a.s. 2009-10) e infine con la scuola secondaria di secondo grado (2010-11).
Nel farlo, l’Invalsi ha dovuto dare risposta ad alcune delle questioni che sono state discusse sui giornali in questi giorni; le soluzioni trovate sono documentate nei rapporti via via prodotti negli ultimi tre anni e disponibili sul sito dell’Istituto.
Senza dubbio, la più importante tra le questioni affrontate riguarda il perché della misurazione degli apprendimenti (incidentalmente va notato che l’Invalsi con riferimento agli apprendimenti ha sempre parlato di misurare o rilevare mai di valutare). Molta parte della discussione di questi giorni ruota consapevolmente o meno intorno a questa domanda. E da qui perciò occorre partire.
A COSA SERVE LA RILEVAZIONE
Vale la pena osservare che la rilevazione degli apprendimenti è pratica comune nei paesi avanzati: 18 tra i 25paesi Ocse per i quali sono disponibili i dati hanno un sistema di rilevazione degli apprendimenti con prove standardizzate. (1) Evidentemente, esiste un bisogno molto concreto di verificare se i ragazzi che frequentano un sistema scolastico, specialmente a frequenza obbligatoria, hanno risultati di apprendimento ragionevolmente comparabili tra scuola e scuola. È superfluo spiegare le ragioni di equità e di efficienza sottese a questo bisogno.
Ci sono molte opinioni contrastanti circa l’uso più opportuno dei risultati delle prove di apprendimento. Si può discutere se debbano essere messi a disposizione delle famiglie o dell’amministrazione centrale; se sia saggio o meno usarli quale strumento per differenziare le risorse tra scuole. Meno fruttuosa è forse la discussione se usarli per differenziare remunerazione e carriera degli insegnanti: molte ragioni teoriche e tecniche sconsigliano di farlo, e comunque praticamente non c’è sistema scolastico che lo faccia. Le diverse opinioni che si possono avere riguardo a queste questioni riflettono in genere il sistema di accountability preferito. La fattibilità pratica dalle soluzioni proposte dipende dalle concrete condizioni in cui ci si trova a operare.
Tre anni fa era chiaro che sarebbe stato impossibile arrivare a un ampio consenso su queste questioni. Pertanto la scelta fu quella di svincolare la rilevazione degli apprendimenti da qualsiasi modello di accountability, riconoscendo invece che misurare gli apprendimenti era necessario soprattutto per fornire alla singola scuolaalcune informazioni essenziali per una condotta razionale dell’attività didattica. Infatti, in assenza di dati comparabili tra scuola e scuola o all’interno dello stesso istituto, la singola scuola non ha alcuno strumento per capire se e in che misura l’istruzione che sta realmente fornendo ai propri allievi corrisponde a quella che era nelle intenzioni fornire.
L'esigenza conoscitiva circa gli esiti formativi delle singole scuole non nasce con le prove Invalsi, ma è connaturata al servizio scolastico che, per sua natura, è diffuso sul territorio, fornito da operatori molto diversi operanti in strutture organizzative tutt’altro che omogenee.
Per molti anni il sistema scolastico italiano ha cercato di contenere l’eterogeneità degli esiti tra scuole e di assicurare uniformità di servizio attraverso la standardizzazione e l’allocazione centralizzata degli input, l’indicazione prescrittiva dei curriculum e dell’organizzazione della didattica, con un rigoroso controllo degli apprendimenti affidato agli ispettori dell’amministrazione centrale.
Per anni siamo vissuti nell’illusione che questo impianto garantisse uniformità degli esiti anche di fronte ai profondi cambiamenti della scuola e della società che hanno di fatto annullato la capacità dell’amministrazione centrale di garantire un servizio uniforme sul territorio nazionale. Basti citare l’autonomia scolastica e la scomparsa di fatto del corpo ispettivo. Così, gli indicatori tradizionalmente usati per monitorare gli esiti del servizio fornito dalle singole scuole non sono in grado di evidenziare le conseguenze della perdita di direzione da parte dell’amministrazione centrale.
Oggi questi indicatori restituiscono una immagine della scuola italiana come capace di fornire un servizio abbastanza uniforme sul territorio. I tassi di successo e i voti degli esami di terza media e di maturità non segnalano, infatti, grandi differenze geografiche. È questa la realtà della nostra scuola? I livelli di apprendimento sono davvero così uniformi sul territorio? Ovviamente no. Una evidenza statistica incontrovertibile mostra come la nostra scuola fornisca un servizio educativo molto diverso tra scuola e scuola della stessa città, dello stesso quartiere e addirittura tra classe e classe della stessa scuola. Chi dubita di queste affermazioni e non crede all’evidenza statistica può chiedersi perché ogni anno le famiglie con i figli in età scolare dedichino così tanto tempo nella ricerca della “buona scuola” o della “sezione giusta”. Evidentemente c’è la cognizione che ci sia differenza tra scuola e scuola e tra classe e classe.
Come può una scuola orientare le proprie scelte se gli indicatori che usa per monitorare gli esiti delle proprie azioni forniscono indicazioni del tutto fuorvianti? Le scelte compiute dall’Invalsi sono basate sul tentativo di dare risposta a questa domanda.

*Piero Cipollone è ex presidente Invalsi

sabato 11 giugno 2011

RIFORMARE IL REFERENDUM

Sembra quasi paradossale che alcune forze politiche invitino gli elettori a non votare sui quesiti referendari. Ma è un effetto del modo in cui la legge sul referendum è disegnata. Basterebbe adottare il sistema tedesco per eliminare l'anomalia italiana. Vincerebbe sempre l'opzione desiderata dalla maggioranza degli aventi diritto al voto. E avremmo un dibattito e un'informazione più ricchi oltre a una partecipazione ampia dei cittadini al processo decisionale: tutti sintomi di vitalità di una democrazia.
Uno dei principi più vecchi della democrazia è che i cittadini e i politici che li rappresentano debbano confrontare le proprie posizioni in modo aperto e affrontare la scelta dopo aver discusso e difeso pubblicamente le proprie ragioni. Questa scelta in un sistema democratico si estrinseca nel voto. Dal principio discende l’idea che una elevata partecipazione dei cittadini alle scelte sia un bene in sé perché favorisce una miglior rappresentazione della “volontà generale” cara a Rousseau: la partecipazione al voto è così diventata una manifestazione del grado di civismo della comunità con cui infatti viene talvolta misurato.  
IL NODO DEL QUORUM
Sotto questo aspetto è paradossale che possano esistere partiti o forze politiche che di fronte a un quesito referendario invitino l’elettorato a non votare. Ma è quanto accade oggi con i referendum sul nucleare, la privatizzazione dell’acqua e sul legittimo impedimento e quanto è accaduto ripetutamente in passato, con inviti talvolta da destra, talaltra da sinistra, a seconda dell’argomento. Si assiste al fatto che una parte consistente,non dei cittadini ma del corpo politico, fugge dal confronto e invita al non voto. La speranza è che non si raggiunga il quorum del 50 per cento più uno degli aventi diritto e la decisione penda quindi da una parte – lo status quo, il mantenimento della legge esistente. Nel nostro ordinamento, infatti, con i referendum si possono abolire ma non approvare le leggi. L’esistenza di un quorum offre a chi fosse contrario alla abrogazione la possibilità del non-confronto e dell’invito al non voto: l'arma non è disponibile a chi propugna l’abrogazione.
Ma il ricorso a questa strategia è il riflesso del modo in cui la legge sul referendum è disegnata ed è pertanto correggibile. Esiste un modo per eliminare questo incentivo e indurre invece i partiti a fare effettivamente quello che conclamano a parole – invitare sempre i cittadini ad andare a votare? Qui avanziamo una proposta di riforma del quorum che raggiunge questo obiettivo. 
REFERENDUM ALLA TEDESCA
L'anomalia italiana è dovuta alla forma del particolare tipo di quorum scelto dal legislatore. Verrebbe automaticamente eliminata se l'Italia adottasse le regole di voto ai referendum della Germania.
Il sistema italiano richiede affinché il referendum sia valido che almeno il cinquanta per cento degli aventi diritto vadano a votare; una volta accertato il requisito di validità, le norme sottoposte a referendum vengono abrogate se la maggioranza dei votanti si esprime a favore dell’abrogazione.
In Germania la regola di validità di un referendum abrogativo è che almeno il 25 per cento degli aventi diritto al voto si esprimano a favore dell’abrogazione e, una volta accertata questa condizione, il numero di “sì” deve essere comunque più alto del numero di “no” per ottenere l'abrogazione della norma. La ragione per cui le regole tedesche scoraggiano la strategia del non-voto è semplice: se si sospetta che più di un quarto degli aventi diritto possano essere favorevoli alla abrogazione (e gli altri contrari, indecisi o disinformati), in un sistema alla tedesca perseguire la strategia del non voto significa assicurare la vittoria degli “abrogazionisti”. Chi si oppone alla abrogazione di una norma non ha dunque nessuna convenienza a chiedere ai contrari di astenersi non andando alle urne. Deve invece indurli ad andare a votare e deve palesare le proprie argomentazioni per convincere gli indecisi e magari anche far cambiare opinione ai favorevoli alla abrogazione. Ne risulterebbero confronti referendari ricchi di informazione, molto competitivi e agguerriti: un po’ come successe in Italia ai tempi del referendum sul divorzio. L’intensità del dibattito, la ricchezza dell’informazione, la partecipazione ampia al processo decisionale dei cittadini sono tutti sintomi di vitalità di una democrazia. Il meccanismo avrebbe l’effetto di dissuadere partiti e gruppi di pressione dall’adozione di pratiche che alla lunga diseducano i cittadini.
Ne segue che se si adottasse il sistema tedesco l'alternativa vincente sarebbe sempre quella desiderata dallamaggioranza degli aventi diritto al voto. Al contrario, nel nostro sistema attuale può succedere che lo status quo prevalga nonostante la maggioranza sia a favore dell’abrogazione di una norma, e può persino succedere che passi l’abrogazione di una norma che invece godrebbe del supporto della maggioranza dei cittadini. Paradossalmente, il quorum approvativo alla tedesca ottiene anche la massima partecipazione, che è l'obiettivo dichiarato, ma strategicamente disatteso, delle regole vigenti.
La questione che stiamo sollevando non riguarda l'opportunità di cambiare gli incentivi a votare nel referendum alle porte, ma riguarda invece le nostre possibilità future di usare i referendum in modo giusto e non distorto, sia quando i referendum saranno richiesti per l'abrogazione di norme scelte da governi di destra sia quando le parti saranno invertite.